Brunetto Latini, Il Tesoretto, XIX

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Or si ne va il maestro
per lo camino a destro,
pensando duramente
intorno al convenente
de le cose vedute:
e son maggior essute
ch'io non so divisare;
e ben si dee pensare
chi ha la mente sana
od ha sale 'n dogana
che 'l fatto è smisurato,
e troppo gran trattato
sarebbe a ricontare.
Or voglio intralasciare
tanto senno e savere
quant' io fui a vedere,
e contar mio vïaggio,
come 'n calen di maggio,
passati valli e monti
e boschi e selve e ponti,
io giunsi in un bel prato
fiorito d'ogne lato,
lo più ricco del mondo.
Ma or parea ritondo,
ora avea quadratura;
ora avea l'aria scura,
ora e chiara e lucente;
or veggio molta gente,
or non veggio persone;
or veggio padiglione,
or veggio case e torre;
l'un giace e l'altro corre,
l'un fugge e l'altro caccia,
chi sta e chi procaccia,
l'un gode e l'altro 'mpazza,
chi piange e chi sollazza:
così da ogne canto
vedea gioco e pianto.
Però, s'io dubitai
o mi maravigliai,
be·llo dëon sapere
que' che stanno a vedere.
Ma trovai quel suggello
che da ogne rubello
m'afida e m'asicura:
così sanza paura
mi trassi più avanti,
e trovai quattro fanti
ch'andavan trabattendo.
E io, ch'ognora atendo
di saper veritate
de le cose trovate,
pregai per cortesia
che sostasser la via
per dirmi il convenente
de·luogo e de la gente.
E l'un, ch'era più saggio
e d'ogne cosa maggio,
mi disse in breve detto:
«Sappi, mastro Burnetto,
che qui sta monsegnore
ch'e capo e dio d'amore;
e se tu non mi credi,
passa oltra e sì 'l vedi;
e più non mi toccare,
ch'io non t'oso parlare».
Così furon spariti
e in un punto giti,
ch'i' non so dove o come,
né la 'nsegna né 'l nome.
Ma i' m'asicurai,
e tanto inanti andai
ch'i' vidi al postutto
e parte e mezzo e tutto;
e vidi molte genti,
cu' liete e cui dolenti;
e davanti al segnore
parea che gran romore
facesse un'altra schiera;
e 'n una gran chaiera
io vidi dritto stante
ignudo un fresco fante,
ch'avea l'arco e li strali
e avea penn' ed ali,
ma neente vedea,
e sovente traea
gran colpi di saette,
e là dove le mette
convien che fora paia,
chi che periglio n'aia;
e questi al buon ver dire
avea nome Piacere.
E quando presso fui,
io vidi intorno lui
quattro donne valenti
tener sopra le genti
tutta la segnoria;
e de la lor balìa
io vidi quanto e come,
e so di lor lo nome:
Paura e Disianza
e Amore e Speranza.
E ciascuna in disparte
adovera su' arte
e la forza e 'l savere,
quant' ella può valere:
ché Desïanza punge
la mente e la compunge
e sforza malamente
d'aver presentemente
la cosa disïata,
ed è sì disvïata
che non cura d'onore,
né morte né romore
né periglio ch'avegna
né cosa che sostegna;
se non che la Paura
la tira ciascun'ora,
sì che non osa gire
né solo u·motto dire
né far pur un semblante,
però che 'l fino amante
riteme a dismisura.
Ben ha la vita dura
chi così si bilanza
tra tema e disïanza;
ma Fino Amor solena
del gran disio la pena,
e fa dolce parere,
e leve a sostenere,
lo travaglio e l'afanno
e la doglia e lo 'nganno.
D'altra parte Speranza
aduce gran fidanza
incontro a la Paura,
e sempre l'asicura
d'aver buon compimento
di suo inamoramento.
E questi quattro stati
son di Piacere nati,
con essi sì congiunti
che già ora né punti
non potresti contare
tra·llor lo 'ngenerare:
ché, quando omo 'namora,
io dico che 'n quell'ora
disia ed ha temore
e speranza ed amore
di persona piaciuta;
ché la saetta aguta
che move di piacere
lo punge, e fa volere
diletto corporale,
tant'è l'amor corale.
Così ciascuno in parte
aòverar su' arte
divisa ed in comuno;
ma tutti son pur uno,
cui la gente ha temore,
sì 'l chiaman Dio d'Amore,
perciò che 'l nome e l'atto
s'acorda più al fatto.
Assai mi volsi intorno
e di notte e di giorno,
credendomi campire
del fante, che ferire
lo cor non mi potesse;
e s'io questo tacesse,
farei maggio savere,
ch'io fui messo in podere
e in forza d'Amore.
Però, caro segnore,
s'io fallo nel dettare,
voi dovete pensare
che l'om ch'è 'namorato
sovente muta stato.
Poi mi tornai da canto,
e in un ricco manto
vidi Ovidio maggiore,
che gli atti dell'amore,
che son così diversi,
rasembra 'n motti e versi.
E io mi trassi apresso,
e domandai lu' stesso
ched elli apertamente
mi dica il convenente
e lo bene e lo male
de l[o] fante dell'ale,
c'ha le saette e l'arco,
e onde tale incarco
li venne, che non vede.
Ed elli in buona fede
mi rispose 'n volgare
che la forza d'amare
non sa chi no lla prova:
«Perciò, s'a te ne giova,
cércati fra lo petto
del bene e del diletto,
del male e de l'errore
che nasce per amore».
E così stando un poco,
io mi mutai di loco,
credendomi fuggire;
ma non potti partire,
ch'io v'era sì 'nvescato
che già da nullo lato
potea mutar lo passo.
Così fui giunto, lasso,
e giunto in mala parte!
Ma Ovidio per arte
mi diede maestria,
sì ch'io trovai la via
com' io mi trafugai:
così l'alpe passai
e venni a la pianura.
Ma troppo gran paura
ed afanno e dolore
di persona e di core
m'avenne quel vïaggio:
ond'io pensato m'aggio,
anzi ch'io passi avanti,
a Dio ed a li santi
tornar divotamente,
e molto umilemente
confessar li peccati
a' preti ed a li frati.
E questo mio libretto
e ogn'altro mio detto
ch'io trovato avesse,
s'alcun vizio tenesse,
cometto ogni stagione
i·llor correzzïone,
per far l'opera piana
co la fede cristiana.
E voi, caro segnore,
prego di tutto core
che non vi sia gravoso
s'i' alquanto mi poso,
finché di penitenza
per fina conoscenza
mi possa consigliare
con omo che mi pare
ver' me intero amico,
a cui sovente dico
e mostro mie credenze,
e tegno sue sentenze.